La morte dell'ex first lady Barbara Bush all'età di 92 anni è stata degna di nota in molti modi. Era a tutti gli effetti intelligente, acuta e divertente, e una buona e utile moglie di un presidente e madre di un altro. La sua morte la scorsa settimana, dopo una lunga malattia, con il marito al fianco, è stato un modello di successo delle cure palliative. Aveva deciso di interrompere il trattamento che prolunga la vita in favore delle cure di conforto.
Nella stessa settimana del suo funerale, il New York Times ha pubblicato un penetrante articolo del dottor Robert M. Wachter, dell'Università della California, a San Francisco, sulle cure palliative e di fine vita, "Il problema delle cure miracolose contro il cancro”. Non aveva nulla a che fare con Barbara Bush, ma si concentrava sul prendere decisioni difficili al termine della vita. Nello specifico, discuteva sulle scelte sull'uso di nuove immunoterapie che sembrano promettenti per alcuni pazienti oncologici i cui casi erano considerati una volta senza speranza. Fino a poco tempo fa, a questi pazienti sarebbero state offerte solo le cure palliative.
Le immunoterapie hanno generato il tipo di eccitazione che sempre accoglie le scoperte mediche. Il problema è che [...]
[...] solo il 15% dei pazienti con un tumore avanzato che hanno ricevuto uno di questi trattamenti ne ha tratto beneficio, ed è impossibile prevedere quali saranno. Questa notizia tutt’altro che buona non è migliorata dal fatto che alcuni pazienti soffrono di terribili effetti collaterali.
Il dottor Wachter fornisce saggi consigli in risposta ad alcune ovvie domande su questa terapia. I pazienti devono essere consapevoli che le cure palliative possono essere fornite in concomitanza ad un trattamento aggressivo contro il cancro. I medici hanno bisogno di più formazione per avere le "difficili conversazioni alla luce dei nuovi trattamenti contro il cancro", ha scritto. "I medici dovranno essere più a proprio agio con l'ambiguità prognostica e più consapevoli dei possibili benefici e danni delle nuove terapie".
L'unica cosa che manca nell'ottimo articolo del dottor Wachter è ciò che spesso manca nelle analisi del processo decisionale di fine vita: come dovrebbero pensare i pazienti o i potenziali pazienti (tutti noi) e formulare giudizi e scelte sensati? La risposta convenzionale è che dovremmo decidere "in base ai nostri valori" o qualche variante di questa frase. Questa è una risposta ragionevole, ma è raro sentire quali dovrebbero essere (o potrebbero essere) questi valori.
Ritengo che il processo per determinare i propri valori dovrebbe avere tre ingredienti. Uno di questi è chiedersi quanto a lungo una vita si vorrebbe o dovrebbe considerare sufficiente. Si può cercare di trovare una risposta plausibile alla luce del modo in cui si è vissuta la vita, e che abbia un senso per la famiglia e gli amici intimi. Sulla base dei resoconti, gli ultimi giorni di Barbara Bush sembravano soddisfare questa richiesta.
In secondo luogo, quanto stress, dolore e infelicità si è disposti a sopportare prima di interrompere il trattamento attivo e accettare solo le cure palliative? Ognuno di noi ha diversi livelli di tolleranza per il dolore ed il turbamento emotivo che può accompagnare una malattia critica. Come per qualcuno con la BPCO avanzata, la cui capacità di respirare è a volte più un terrore che un dolore, ritengo che il contesto possa fare una grande differenza. Al college ero un nuotatore su lunga distanza, e i miei compagni di squadra stavano battendo il record del mondo. Per competere a quel livello è necessario essere disposti a sopportare un quasi soffocamento, tanto grave quanto l’esperienza della BPCO. Ma la sofferenza sembrava valere la pena. Non sorprende che la maggior parte degli altri nuotatori abbia scelto distanze più brevi e meno stressanti.
Nel contesto della malattia letale, sospetto che le considerazioni pertinenti si riducano agli obiettivi della vita che si ha in quel momento. Barbara Bush, che ha anche avuto la BPCO, ha vissuto una vita piena come chiunque potrebbe chiedere. Non molti di noi vivranno fino a 92 anni, principalmente in buona salute, e molti meno cresceranno una famiglia di successo. C'è una differenza importante tra non avere nulla per cui valga la pena vivere e decidere che si è vissuta una vita piena e si è pronti ad accettare la morte.
Il terzo ingrediente per identificare i valori che dovrebbero influenzare le decisioni sulle opzioni di trattamento di fine vita è considerare i bisogni di chi ci è vicino. Si potrebbe accettare un trattamento per il cancro con una bassa probabilità di successo e un'alta probabilità di effetti collaterali se si hanno figli a carico o un coniuge malato.
Ci sono altre due cose che vale la pena considerare per coloro che devono prendere decisioni sul fine vita. Una la chiamerò un pregiudizio emotivo, l'altra una realtà medica. Dopo aver esposto i pro e i contro delle miracolose cure immunologiche per il cancro, il dottor Wachter tradisce un sottile pregiudizio verso le cure palliative, facendo un passo avanti rispetto a raccomandare una combinazione di cure palliative e trattamento attivo. "Facciamo in modo di non derubare i pazienti morenti di un miracolo più piccolo e più sottile: una morte con dignità e grazia, relativamente priva di dolore e disagio", scrive nella sua ultima frase.
Non ho idea se ci siano solidi dati disponibili per dimostrare se la tendenza del trattamento per i pazienti oncologici vicini alla morte è quella di scegliere trattamenti sperimentali, solo le cure palliative o una combinazione di entrambi. Il Pew Research Survey del 2013, l'ultimo disponibile, ha riscontrato un notevole aumento negli ultimi anni nella percentuale di pazienti che desiderano che si faccia "tutto il possibile" per salvare le loro vite, passando dal 15% nel 1990 al 31% nel 2013. Anche se non cita quelle statistiche, sono coerenti con la tesi esposta nel sorprendente libro di Sharon Kaufman, Ordinary Medicine: Extraordinary Treatments, Longer Lives, and When to Draw the Line. In sostanza, la sua tesi è che l'assistenza medica negli Stati Uniti può essere paragonata a un nastro trasportatore apparentemente inarrestabile che spinge l’assistenza verso sempre più tecnologia, sopravvivenze più lunghe e una morte più disagiata, una dipendenza commerciale e una linea sempre più nebulosa tra "la vita che consente le terapie e i troppi trattamenti ".
Ritengo che l'ultima frase sia vera e rappresenti una piaga nel nostro sistema sanitario. In generale, sarebbe corretto dire che un trattamento antitumorale con costi di ricerca sbalorditivi, un tasso di successo del 15% ed effetti collaterali sgradevoli per alcuni, sembra un caso studio perfetto del nastro trasportatore nel suo aspetto peggiore.
Ma esito a dirlo. Dopo tutto, la strategia immunologica per una cura contro il cancro è ancora nuova e sperimentale, un caso classico per fare una scommessa di ricerca. Il Cancer Moonshot del governo federale mostra quella scommessa, i grandi rischi e i potenzialmente grandi miglioramenti. Un'altra iniziativa, il Cancer Breakthroughs 2020, suggerisce di intensificare il tentativo. Questi sviluppi mi lasciano un dilemma. La ricerca non può procedere in modo significativo se coloro che muoiono di cancro scelgono in modo schiacciante solo le cure palliative, decidendo di non correre i rischi dei trattamenti sperimentali. L'unico modo per far accettare loro i rischi è quello di portarli su quel nastro trasportatore che sotto altri aspetti ci causa così tanti problemi.
vai all'articolo originale: >> Palliative Care vs. Cancer Research By Daniel Callahan