L’esperienza descritta di seguito è relativa ad un trascorso di 17 mesi nei quali un’equipe di cure palliative ha seguito 54 casi. Nella casistica si è registrata una quota significativa (27,7%) di caregivers svolgenti professioni sanitarie a vario titolo (medici, infermieri, fisioterapisti), oltre alla presenza di nuclei famigliari con all’interno i professionisti sopracitati oppure con membri attivi nel volontariato socio sanitario, anche di lungo corso.
Partendo dall’assunto che in Cure Palliative la comunicazione ricopre un ruolo fondamentale ho osservato le dinamiche relazionali che si creavano durante il prosieguo delle assistenze.
In letteratura sono presenti lavori relativi al carico assistenziale e all’onere del care giver e le rispettive conseguenze negative sulla sfera assistenziale, (valutazione oggettiva) e su quelle emotiva e [...]
[...] relazionale (valutazione soggettiva) con implicazioni di natura sociale e in taluni casi anche finanziaria, oltre al fatto che la mancanza di consapevolezza rispetto a questi aspetti generi inevitabili ricadute a carico del SSN. Queste condizioni, oltre a comparire periodicamente nella totalità dei casi, hanno trovato maggior enfasi in quelli dove il care giver ricopriva un ruolo sanitario nella sfera professionale.
Viene da pensare che, condividere il percorso professionale, o parte di esso con il caregiver sia un motivo di avvicinamento e condivisione delle proposte terapeutiche, la cui conseguenza naturale dovrebbe essere una facilitazione alla trasmissione delle stesse al paziente, quand’egli fosse in grado di recepirle. Nei casi di specie, questo non è sempre avvenuto. Di contro si sono verificate situazioni di divergenza, non sempre manifesto o particolarmente vivace, ma sempre presente e non sempre intercettato da tutti i membri dell’equipe, durante le singole visite, perché i caregivers sanitari comunicavano in maniera differente sulla base dell’interlocutore che avevano di fronte, medico, infermiere o psicologo. Questo aspetto appare normale di per sé e giustifica di fatto la presenza di diversi professionisti nell’equipe di Cure Palliative.
È apparsa però interessante la modalità con la quale si sono sviluppati i dialoghi, come ad avvalorare il ruolo dell’uno o dell’altro professionista (la tendenza era quella di dare risalto alla figura dal ruolo corrispondente; medico vs medico infermiere vs infermiere…).
Proprio l’essere a loro volta professionisti della salute ha reso complessa la comunicazione e di conseguenza l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, tra l’equipe di Cure Palliative e il paziente e la sua famiglia. La posizione dei caregivers sanitari è apparsa sufficientemente forte dell’esperienza propria di ognuno di loro da sfociare in una contestazione (a volte velata, a volte manifesta) delle scelte proposte e in un conseguente maggior impegno da parte dell’equipe, per riproporre e motivare gli atti medici e assistenziali che si volevano svolgere, la qualcosa parafrasando quanto riportato nella legge 219, ossia che “…il tempo di comunicazione è tempo di cura…”, non rappresenta un problema per il professionista di Cure Palliative, ma a mio modesto parere, solo in funzione di una comunicazione efficace e proattiva.
Le modalità di contrapposizione sono apparse differenti tra loro, a seconda delle professionalità che si sono incontrate e nel dettaglio;
I professionisti medici, si inserivano nell’ambito delle prescrizioni, sostenendo in quanto medici e prescrittori, la titolarità del caso o la “centralità del ruolo”.
La compagine infermieristica è apparsa invece, tendenzialmente più concentrata sulla sfera “prestazionale” e “interventistica”, identificando spesso come omissione il non compiere atti assistenziali “scontati” e “automatici” in altri contesti (ad esempio quello ospedaliero e in particolare quello dell’emergenza urgenza, dal quale io stesso provengo e dove ho maturato un’esperienza ventennale) all’interno di protocolli e procedure molto rigide.
Per quanto concerne i fisioterapisti, la manifestazione si è rivelata simile a quella della classe medica nella forma, differendo nella sostanza, attribuendo a competenze specifiche e settoriali valenza più ampia, fino alla contestazione delle prescrizioni o degli atti assistenziali.
Scendere nel dettaglio delle cause che determinano tali situazioni non è oggetto di questo scritto, che vuole solamente aprire una riflessione sui temi in questione e magari stimolare futuri lavori volti a ricercarle.
Si può ipotizzare che esse si ritrovino in parte nella cultura, nell’educazione e nel vissuto personale di ciascuno ed in parte nel percorso studi svolto.
Se nel primo caso bisogna attendere una evoluzione sociale, è nel secondo che varrebbe la pena di aprire discussioni, ricerche e/o tavoli di lavoro. La formazione di un professionista sanitario, volge a costruire lo stesso sulla base di nozioni scientifiche e sulla loro applicazione sul campo (tirocini, scuole di specialità…) ma forse, in questi percorsi, troppo poco tempo viene dedicato alle strategie di comunicazione e alla interdisciplinarietà, ossia alla collaborazione con le altre figure professionali. Forse, troppo spesso il concetto di “lavorare in equipe” rimane un ideale da perseguire, ma non perseguito veramente o fino in fondo. Forse le strutture ospedaliere e gli atenei mantengono ancora un’impostazione rigida, basata su principi gerarchici e non trasversali e si preferisce ancora il “modello prestazionale”. Forse la centralità del paziente nel processo di cura, non è ancora universalmente accettata, o lo è solo sulla carta. Tutte ipotesi alimentate in questa esperienza descritta.
Al momento, la presa in carico precoce è la strategia più valida. Avere più tempo a disposizione dà la possibilità di dialogare più a lungo, esponendo e motivando le scelte e gli atti che si compiono. Questo principio vale per tutte le assistenze ed è suffragato ampiamente in letteratura, dove si possono osservare studi ed evidenze che dimostrano come la Presa In Carico precoce diminuisca il disagio percepito dai care givers oltre che il rischio di depressione indotta dalla patologia e per contro esalti e migliori gli aspetti di comprensione della stessa da parte del paziente e del nucleo famigliare, fino ad essere raccomandata ad esempio nell’ambito oncologico, da eminenti organi competenti (American Society Of Clinical Oncology), al momento stesso della diagnosi. Nel caso dei care givers sanitari, la Presa In Carico precoce può permettere agli stessi (ed è avvenuto in taluni casi tra quelli riportati) di diventare davvero alleati importanti, o addirittura protagonisti essi stessi della cura dei loro congiunti, trasformando le reticenze in sinergie. Ovviamente non basta. Sarebbe opportuno agire sulla formazione specifica degli operatori od in alternativa, proporre integrazioni al percorso studi inerenti alla comunicazione e l’interazione con il team di cura.
Auspico che quanto riportato in questo elaborato possa suscitare riflessioni e iniziative, che sarei lieto di condividere, per approfondire questo tema, per confermare la centralità del paziente e dei suoi bisogni, non solo in ambito di Cure Palliative ma nell’intero Sistema salute, perché promuovere il benessere fisico, psichico e sociale dei cittadini, in ogni fase della loro vita, deve rimanere un obbiettivo primario di una società moderna e civile, come si fregia di essere la nostra.
Alessandro Bonet, Infermiere Palliativista.
Bibliografia;
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A sense of security in palliative homecare in a Norwegian municipality; dyadic comparison of the perceptions and relatives – a quantitative study. BMC Palliative Care 19-07-2020
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