Da un sondaggio emerge che medici si sforzano di avviare un colloquio con i pazienti sofferenti su come vogliono vivere i loro ultimi giorni. Il risultato? I pazienti stessi devono affrontare il tema.
Apr 22 2015
La dottoressa VJ Periyakoil e i suoi colleghi raccomandano che siano i pazienti in difficoltà ad iniziare il dialogo con i loro medici su come vogliono vivere i loro ultimi giorni.
Secondo un recente studio condotto dai ricercatori della Scuola di medicina della Stanford University la maggior parte dei medici esita a parlare con i pazienti gravi su ciò che è importante per loro negli ultimi giorni, soprattutto se l'etnia del paziente è diversa da quella del sanitario.
La ricerca, pubblicata su PLOS ONE il 22 aprile, si basa su questionari compilati in forma anonima da 1.040 medici interni nel loro ultimo anno di formazione.
Le conversazioni sul fine vita aiutano [...]
[...] i medici a chiarire che cosa conta di più per i pazienti nei loro ultimi giorni di vita, ha detto la dottoressa VJ Periyakoil, l'autore principale dello studio e professore associato di medicina clinica presso la Stanford: "Quali sono le loro speranze, i desideri, i bisogni e le paure? Vogliono morire in ospedale collegati ad una macchina? Vogliono morire a casa? Non lo possiamo sapere se non ne parliamo".
In automatico, dichiara la Periyakoil, i medici generalmente offrono ai pazienti ogni possibile trattamento per la loro condizione, a prescindere dal suo impatto sulla loro qualità di vita, ma: "I medici hanno bisogno dell’aiuto dei loro pazienti per affrontare queste conversazioni".
L'indagine si è svolta tra il 2010 e il 2012 in due centri medici universitari: lo Stanford Hospital & Clinics (che ora si chiama Stanford Health Care) e l'Health Care System Veterans Affairs di Palo Alto. Il tasso di risposta è stato dell’84% e comprende il personale di 11 specialità. La maggior parte degli intervistati erano di medicina interna (29%), chirurgia (19%) o pediatria (14%).
Il sondaggio chiedeva ai medici se avessero incontrato ostacoli ad avere efficaci conversazioni di fine vita con i pazienti gravemente malati e le loro famiglie e, in caso affermativo, in che misura lo svolgimento di queste conversazioni era stato più impegnativo con quelli di un ambiente culturale o etnico differente. Si chiedeva anche ai medici di elencare le tre maggiori difficoltà incontrate nel condurre delle efficaci conversazioni di fine vita.
"Sapevo che la percentuale dei medici che aveva incontrato ostacoli nell’avere conversazioni di fine vita sarebbe stato elevato, ma sono rimasta sorpresa da quanto è alta" ha detto la Periyakoil. Il 99,99% degli intervistati ha riferito difficoltà, e l’86% le ha definite molto impegnative.
Un recente studio mostra che i medici hanno difficoltà ad avviare conversazioni sulle cure di fine vita con i loro pazienti.
L’interpretazione medica, un punto critico.
I ricercatori hanno classificate le difficoltà incontrate dai medici in base al soggetto e hanno individuato le prime sei.
Partendo dalla più grave, erano:
1) le questioni di lingua e di interpretazione medica;
2) le credenze spirituali riguardo alla morte e al morire del paziente e/o della famiglia;
3) l'ignoranza del medico sulle credenze culturali, i valori e le pratiche del paziente;
4) le differenze culturali del paziente e/o della famiglia nella gestione della verità e nel prendere decisioni;
5) la scarsa cultura della salute del paziente e/o della famiglia;
6) la diffidenza del paziente e/o della famiglia nei confronti dei medici e del sistema sanitario.
La Periyakoil ha notato che tutti questi ostacoli hanno maggiori probabilità di verificarsi con i pazienti che appartengono alle minoranze etniche che parlano una lingua diversa da quella del medico, esacerbando ulteriormente le disparità che incontrano riguardo alla salute.
Le risposte al sondaggio forniscono dettagli su questi problemi e suggeriscono alcune soluzioni. Ad esempio, l'indagine ha rivelato che il principale ostacolo che i medici devono affrontare quando intavolano queste conversazioni è la comunicazione con pazienti con i quali non hanno una lingua comune. I compilatori hanno notato che il gergo medico è difficile da tradurre, perché possono non esistere parole equivalenti e l’approssimazione può portare a malintesi. I termini tecnici come la rianimazione cardiopolmonare e frasi idiomatiche come le "misure eroiche", che emergono nelle conversazioni sul fine vita possono confondere anche le persone con una buona comprensione dell’inglese. Sicuramente gli mediatori possono aiutare, ma i medici intervistati hanno detto che gli interpreti non sono sempre immediatamente disponibili, e che coinvolgerli richiede tempo e può interferire con la relazione medico-paziente.
Gli autori dello studio evidenziano che anche chi parla bene la lingua inglese comunemente fraintendere le parole dei medici: "Anche le parole di uso comune possono significare cose molto diverse per persone diverse, per esempio, gli oncologi spesso usano la parola 'cura' per indicare cinque anni di sopravvivenza libera da cancro. Tuttavia, per i malati di cancro e per le loro famiglie, la parola 'cura' significa l'eliminazione del cancro ed il ripristino della salute normale".
La Periyakoil sostiene che tutti i medici dovrebbero essere formati nella conduzione delle conversazioni di fine vita in un modo rispettoso e culturalmente efficace. Suggerisce che le organizzazioni sanitarie devono sviluppare modi per identificare sistematicamente i pazienti con una limitata conoscenza dell’inglese con verifiche al primo ingresso nel sistema - ad esempio, ponendo la domanda: "A casa parlate una lingua diversa dall'inglese?" - e retribuendo adeguatamente i medici per gli appuntamenti più lunghi con i pazienti con cui è necessario un interprete. Inoltre è importante formare i medici e i mediatori a lavorare insieme in modo efficiente.
Maggiore formazione per i medici
Per contribuire ad affrontare le altre questioni, molte delle quali derivano da una carente conoscenza da parte dei medici sui pazienti di culture e fedi diverse, i ricercatori raccomandano una formazione durante l’istruzione e la carriera dei medici.
Niente di tutto questo sarà facile, ha detto la Periyakoil, ed è per questo che lei pensa che i medici abbiano bisogno dell’aiuto dei pazienti.
"I medici sono molto bravi nel fare ciò che stiamo istruiti a fare: prescrivere farmaci, seguire le procedure - ma non nel comunicare" ha detto. "È assurdo non formare i medici alla comunicazione, ma aspettarsi che siano abili comunicatori.”
"Abbiamo bisogno che il paziente tenga la mano del medico e cammini con lui", ha aggiunto.
Dato che la popolazione degli Stati Uniti diventa sempre più diversificata, sostiene che superare le barriere della comunicazione sia particolarmente importante.
Afferma che "Negli Stati Uniti la maggioranza sarà in minoranza nel 2034, e 30 anni non sono un tempo lungo perché la nazione cambi" e che "per dare la migliore qualità assistenziale a tutti, dobbiamo evitare di appesantire e sovraccaricare le persone di cure che non danno beneficio. Parlare è la ricetta segreta per fornire un’assistenza su misura secondo gli obiettivi ed i valori del paziente. Ma i medici sono riluttanti, non sono preparati né pagati per questi colloqui. I pazienti hanno bisogno che si rendano più facili queste comunicazioni."
Per affrontare l'argomento, la Periyakoil inizierebbe così: "Dottore, posso aiutarla a parlare di alcune cose molto importanti per me". Poi suggerisce di chiarirsi i propri desideri e spiegare ciò che ha valore per sé. Desidero ricevere qualsiasi intervento medico a prescindere dal dolore e dalla sua influenza sulla qualità della mia vita? O evitare il dolore è la mia priorità?
Per aiutare i pazienti a iniziare questo colloquio, ha creato un modello per una comunicazione che i pazienti possono compilare e condividere con i loro medici. Si può visionare su http://med.stanford.edu/letter.html.
Per se stessa, la Periyakoil intende dire: "Io voglio che lei faccia tutto il possibile per aiutarmi a vivere bene. Ma quando arriva il mio momento, per favore mi lasci andare dolcemente".
I co-autori del documento sono Helena Kraemer, medico, professore di biostatistica in psichiatria, emerita; ed Eric Neri, sviluppatore di software.
La ricerca è stata sostenuta dal Dipartimento di Medicina della Stanford. Maggiori informazioni su di esso sono disponibili su http://medicine.stanford.edu.